Qualche giorno fa ho ricevuto la telefonata di un amico imprenditore che ha un’attività subito fuori Milano. La “ditta” come si dice da queste parti, o il “capannone medio”, come direbbe nei suoi monologhi il comico Albanese. Lui è un artigiano giovane e dinamico che ha saputo costruire nel tempo la sua attività, avvalendosi di un talento che ormai è ritenuto consolidato.
La mattina seguente avrebbe dovuto incontrare un produttore di un materiale esclusivo per accordarsi su di una fornitura. Mi chiama da quando casualmente mi capitò di accompagnarlo a uno di quei colloqui che sembrano dei veri e propri duelli più che delle conversazioni. A me il produttore piacque subito, si vedeva che aveva iniziato quando c’era ancora la possibilità di godersi la vita oltre che guadagnarsela. Sono cose che si percepiscono a pelle ed anche il carattere credo aiuti nel suo immediato proporsi. La sala riunioni non era pacchiana o addirittura kitsch come sempre più spesso è facile ammirare dai cumenda della Brianza, anzi era stlisticamente ricercata: subito si poteva intuire che si aveva a che fare con qualcuno che non amava solo i soldi. Infatti dopo un’ora di cifre e percentuali, annoiato, mi guardai bene in giro e feci notare impulsivamente all’amico che eravamo seduti su delle poltrone Gae Aulenti. “Quelle esposte anche al Museo di Arte Moderna a New York”, rincarai la dose. Il boss per niente infastidito di questa interruzione si compiacque anzi così tanto che sottolineando la sua personale scelta e che nessuno se ne fosse mai accorto ci prese in simpatia e strappammo un buon contratto.
D’altronde è risaputo che a fronte di serissimi appuntamenti d’affari l’economia italiana si è sempre più giovata, per i suoi accordi, delle simpatie riciproche, dei salotti compiacenti, delle palestre alla moda, o anche, come si vede recitare spesso nei film della commedia all’italiana: delle camere da letto.
Ebbene, non c’è miglior persona per tastare veramente il polso dell’economia italiana di chi con talento e impegno ha messo a frutto la sua vena imprenditoriale in quel di Milano, e quindi la chiusa del cerchio è d’obbligo: dopo aver consultato quel minimo di giornali che servono per farsi un’ idea di come stanno andando le cose l’ultima parola va sempre al mio amico. Ed ora più che mai: nel momento in cui il paese sprofonda in una recessione che così mai si era vista negli ultimi anni.
Ma questa volta non c’è stato bisogno di fargli nessuna domanda perché subito dopo i saluti di rito mi ha anticipato sul tempo: “Ma uno a Milano come fa a lavorare !?!”. E’ stato l’ incipit che ha preceduto il suo amaro racconto.
La settimana precedente era stato in visita proprio da quel signore che ci aveva preso in simpatia e che gli aveva raccontato che dopo quaranta anni di florida attività stava per chiudere, anche lui come molti altri nella zona. E’ vero, un fornitore che era scomparso gli doveva 80.000 euro, ma oltre ai soldi si rammaricava anche di essere stato più volte preso in giro. Preso in giro da quello che gli stava succedendo intorno, e teneva a sottolineare che non per : “ puro problema economico” avrebbe chiuso i battenti, perchè anni da industriale gli permettevano ormai di vivere agiatamente di rendita. Comunque, rimuginando da tempo su come recuperare il maltolto, oltre ad aver intentato come da prassi una causa , scoprì come l’Azienda avesse un ammanco eguale anche per
Eh già: “Ma uno a Milano come fa a lavorare !?!” Come biasimare lo sfogo del mio amico. Se vengono a mancare le figure di riferimento di quel sistema che noi chiamiamo capitalistico, quelle principali, che si studiano nei libri dell'università, i capisaldi di Smith per intenderci, quelli che ti garantiscono il regolare svolgersi del capitalismo moderno allora come si fa a lavorare ? Se l’unico humus in cui può oggi proliferare una aziende del milanese è un terreno privo di garanzie istituzionali, con un deficit acclarato di stato di diritto, di latitanza di elementari regole a tutela del mercato considerato ormai come un mostro monolitico nel solo atto di mantenere, seppur a suo discapito, invariato lo stato delle cose allora a Milano non si può che lavorare male con tutto quello che ne consegue.